Rinaldo: campane a morto per Venezia, se non ci svegliamo marcirà
Il premio Nobel per l’acqua: piene e siccità più intense sono essenzialmente due facce della stessa medaglia. «Mercanti di dubbi ci sono sempre stati, dentro e fuori la comunità scientifica»
Andrea Rinaldo, veneziano, è Ordinario di Costruzioni idrauliche all’Università di Padova e direttore del Laboratoire d’Écohydrologie dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna. Grande appassionato di rugby, è l’Azzurro d’Italia n. 326, tre volte campione d’Italia con il Petrarca Padova. Fra i riconoscimenti, è socio Linceo, dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti di Venezia di cui è oggi Presidente e di Accademie internazionali. Nel 2023 riceve lo Stockholm Water Prize, il premio per gli studi sull’acqua più prestigioso al mondo. La prima edizione del suo libro intitolato «Il governo dell’acqua» è stata pubblicata da Marsilio nel 2009.
Professore. Oltre che poeti, santi e navigatori, siamo diventati un po’ tutti climatologi?
Certo che sì, d’altra parte a Venezia tutti insegnano idraulica.
Che sensazione le fa la confusione dei non addetti ai lavori tra meteorologia e climatologia?
Devo dire la verità: se tutto questo propone un modello di attenzione verso il clima che cambia rapidamente, ben venga. Sciocchezze se ne dicono tante, ma una sciocchezza che inviti dubbi e riflessioni, che si preoccupi di cosa lasceremo ai nostri figli e nipoti, a me sta bene.
Il negazionismo è un fenomeno social oppure è condiviso da una parte – non so quanto diffusa – della stessa comunità scientifica?
Mercanti di dubbi, ossia portatori di interessi particolari che deliberatamente intendono fuorviare, ci sono sempre stati. Dentro e fuori la comunità scientifica. La mia idea è che alcuni negazionisti sono in buona fede, e grazie a Dio questo è un paese libero e dobbiamo sorbirceli con serena rassegnazione. Altri, sono proprio improbabili. E gli irriducibili devono rendersi conto che per la scienza il principio di autorità vale sempre, e nessuna opinione è più inscalfibile di quella preconcetta.
E quelli in buona fede, se ce ne sono?
Sì, esistono ma vedono le cose da una prospettiva limitata o partono da ipotesi sbagliate, o proprio ragionano male. Vede, se uno tuona sui cambi climatici che ci sono sempre stati dice una ovvietà, è vero. Quello che non è denegabile è la rapidità dei cambiamenti che osserviamo e che non ha precedenti. I dati piú eclatanti, relativi a indicatori economici e sociali e a misure del turbamento della biosfera, sono i cosiddetti diagrammi a mazza da hockey: dal Settecento a oggi, ci parlano di un clima piatto sino alla metà degli anni ’50 del secolo scorso, che da allora cambia senza freni. È la rapidità del cambiamento che non è mai stata tale, ed è su questa che dobbiamo concentrarci senza perdere tempo.
Quanto tempo abbiamo?
Poco. Se vogliamo vederla nella prospettiva della mia città, Venezia, gli studi dell’IPCC più recenti ci dicono che nel giro di settant’anni, nell’interpretazione più probabile (relativa a un tasso di crescita della concentrazione du gas serra uguale a quello si oggi), avremo circa 70 centimetri in più del livello medio del mare, a cui va aggiunta una quota nota di subsidenza naturale. Insomma, verso il 2100 avremo un metro di livello medio del mare in più. In questo caso non ci sarà più Venezia, laguna o città metropolitana di cui discutere. Per non parlare di scenari catastrofici legati alla fusione totale dei ghiacci della Groenlandia, un evento che non ha probabilità zero. Il momento di pensare ai modi di adattarci è adesso.
IPCC ha rivisto le sue previsioni, peggiorandole, giusto?
Le ipotesi dell’IPCC sono una campana a morto per Venezia. La febbre del pianeta, generata dalla concentrazione dei gas serra di origine antropica, è il problema dei problemi. E purtroppo non sono sicuro che riusciremo a mitigare questi effetti, temo che il necessario accordo tra Nord e Sud del mondo sia difficilmente fattibile.
Ma quindi Venezia?
Se non cominciamo subito a pensare a come adattarci, nel 2100 la città non ci sarà più. Marcirà, sprofonderà come Atlantide. Abbiamo impiegato 60 anni per costruire il Mose, un problema concettualmente (non tecnologicamente) facile: se il problema era la protezione di Venezia da acque alte eccezionali, non è mai esistita una alternativa all’interruzione del rapporto tra mare e laguna. Dunque, quella era una decisione facile: che pure ha richiesto 60 anni dall’acqua granda del 1966. Di certo non possiamo aspettare altri 60 anni oggi per capire cosa fare di Venezia. Le scelte decisive su cosa fare sono diverse, che prefigurino: una città ancora viva e vitale fra un secolo a fronte di cambiamenti epocali del livello delle acque; una laguna che offra ancora servizi dell’ecosistema paragonabili a quelli di oggi; e, oltre la conservazione dell’ambiente costruito, (l’opera dell’ingegno dell’uomo che tutto il mondo ammira), un modello condivisibile di sviluppo economico e sociale dell’intera area metropolitana che ricomprende Venezia. L’urgenza è grande, il momento di avviare un processo di riflessione su che fare non è dilazionabile.
Se la immagina la laguna di Venezia senza velme e barene?
Quelle le perderemo comunque se non interverremo contrastando la loro evoluzione spontanea. Se lei confronta lo stato attuale con quello delle carte dell’Ottocento, vede che le aree di barena attuali sono decimate. È l’ineluttabile conseguenza dell’aumento del medio marino: quando la sommersione periodica delle barene supera la soglia di sopravvivenza della vegetazione alofila, le barene spariscono rapidamente. Se non invertiamo le tendenze spontanee, perderemo tutto. Insomma, l’idea che esista un secolare equilibrio idraulico della laguna di Venezia è una colossale stupidaggine.
La riporto dal mare in montagna: affrontiamo i temi legati all’innevamento. Nevica meno, nevica sempre meno sulla media quota…
Tutta questa neve che stiamo vedendo un questi giorni è una benedizione per i sistemi acquiferi, ma deve preoccupare sempre l’idea che una variabilità idrologica così marcata è un carattere del cambiamento climatico in corso. Piene e siccità più intense sono essenzialmente due facce della stessa medaglia. L’idea che possiamo aspettarci eventi sempre più intensi, in un senso o nell’altro, è la cifra di quello che stiamo vivendo.
La sua posizione sulle richieste di nuovi invasi?
Dire di no per principio è una stupidaggine, di questo sono sicuro. Esistono contesti in cui gli invasi sono la soluzione giusta e altri in cui non lo sono. Un approccio colto e laico alle opera di adattamento al clima che cambia rapidamente deve prevedere una valutazione equa di costi e benefici delle varie possibili opere, avvertiti sulle specificità del contesto territoriale coinvolgendo tutti i possibili portatori di interessi (e un decisore imparziale). Interrogarsi, ad esempio, sul futuro dell’agricoltura attuale nell’Italia del Nord significa ragionare sul fabbisogno d’acqua necessario ad alimentarla. Dire sì o no a prescindere è sbagliato.
Un esempio di progetto dibattuto?
La diga sul Vanoi. Lì, una valutazione laica non l’ho vista ancora: siamo rimasti agli irriducibili, in un senso o nell’altro.
E una best practice?
In questi giorni il Vicentino è stato un caso di scuola. La costruzione di casse di espansione nel bacino del Bacchiglione ha avuto un ruolo importante nel contenere disastri causati dalla piena, in un territorio fortemente urbanizzato, Sono casse relativamente piccole, quella più recente di Caldogno è capace di poco più di 3 milioni di metri cubi d’acqua invasata, ma ha prevenuto danni importanti. Ma non è una regola applicabile ovunque. E attenzione ad ascoltare gli esegeti delle piene, generalmente geologi che qualche fatica sui libri di idraulica e idrologia non l'hanno fatta mai.
Ci sono tesi ambientaliste che lei sottoscrive?
Certo. L’ambientalismo militante ha avuto grandi meriti. Le tesi secondo cui indicatori economici che non ricomprendano il capitale naturale non possono dare una credibile valutazione della ricchezza o della povertà delle nazioni è fondamentale. Ma definiamo il termine “ambientalista”: chi può dare patenti di legittimità, magari autocertificate? Le tesi ambientali vanno verificate con metodo scientifico: le litanie di lamentazioni possono essere fuorviate da agende politiche e non da sincero amore per l’ambiente, e viceversa.
Ma è vero che abbiamo deviato artificialmente quasi tutti i corsi d’acqua?
Non c’è niente di naturale, nell’Italia di oggi, qualcosa che non abbia risentito dell’azione dell’uomo. E non è per forza tutto opera del demonio invece che del Buddha. Molte opere di ingegneria hanno risolto problemi annosi e immediatamente acquisito caratteri di bene culturale e ambientale.
E il partito trasversale della rinaturalizzazione?
I disastri del fare ci sono sempre stati, e gli ingegneri spesso hanno causato disastri ambientali anche clamorosi. Quelli di Stalin che hanno causato la distruzione del lago d’Aral, per divertire i due affluenti e rendere autarchica l’ex URSS nella produzione del cotone, battono ogni record. Però l’idea di affidarsi alle rinaturalizzazioni per risolvere tutti i problemi delle piene è risibile.
L’agricoltura va riconvertita?
Ripensata, certamente sì, anche solo per prudenza. Dobbiamo capire cosa possiamo permetterci e cosa no. Una lezione fondamentale ci viene dagli idrologi israeliani, i più bravi al mondo secondo me. Riciclano sino al 90% dell’acqua reflua depurata delle fognature nere. Ne usano poca desalinizzata per scopi potabili e urbani, e riescono a vendere a terzi, come la Giordania, acqua potabile pur avendo un clima che va da semi-arido ad arido. Scelgono quali colture sono sostenibili secondo la loro domanda di acqua nello spazio e nel tempo. Progettano sistemi di irrigazione che usano meno acqua possibile rivedendo continuamente lo stato dell’arte della domanda e delle disponibilità. Quella è la strada, a mio giudizio.
E l’idroponico?
Giusto guardare a tutte le possibilità, laicamente e con cura.
Ma la ricetta per il futuro del turismo invernale?
Spostarlo sempre più in alto, almeno per qualche centinaio di anni.
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