Matteo Crespan, da Treviso al Mozambico per allenare la nazionale femminile di rugby
Da gennaio 2023 è il coach di una società sportiva alla periferia di Maputo e segue i giovanissimi. Poi l’incarico federale con le ragazze ed è anche il co-allenatore della nazionale maschile: «La palla ovale insegna l’emancipazione. Qui imparo la gioia nel poco e il senso del tempo»
Due volte alla settimana, per due ore, un po’ di rugby veneto approda sulle coste dell’Oceano Indiano, in Mozambico. Matteo Crespan, 26 anni, trevigiano cresciuto “rugbysticamente” sui campi della Tarvisium e poi approdato in Francia, allo Stade Toulousain di Tolosa, ha fatto della palla ovale la sua missione in Africa.
Da gennaio 2023 si è trasferito a Magoanine, popoloso quartiere della capitale Maputo, ed è uno dei coach del Rugbio Magoanine, oltre che della nazionale femminile e co-allenatore della maschile. Allenatore ma anche (e soprattutto) educatore e riferimento per ragazzi e ragazze che vivono alla giornata e che nel rugby stanno trovando la strada per una vita migliore. Loro sono “Tigres e Tigresas de Magoanine”, le tigri e le tigresse di Magoanine.
Matteo, perché è partito per l’Africa?
«Gioco a rugby da quando ho 9 anni, sono arrivato fino in prima squadra alla Tarvisium. Dopo la maturità ero incerto sul mio futuro e ho deciso di andare all’estero per giocare e allenare le giovanili allo Stade Toulousain. Ma dopo qualche anno in Francia ho cominciato a sentire stretta anche quella realtà. È allora che mi sono ricordato di una foto su Instagram postata qualche anno prima da un’amica rugbista che era stata in Mozambico a visitare un club di rugby ed era rimasta legata a quella realtà. Avevo bisogno di cambiare vita e le ho scritto: “Vorrei venire a fare una esperienza là”. Sono arrivato a gennaio 2023, dovevo stare 11 mesi e invece sono ancora in Africa, pieno di progetti in corso».
Di cosa si occupa al Rugbio Magoanine?
«Sono l’allenatore della squadra under 18 femminile e gioco con il team senior maschile. Sono numero 10, ossia mediano d’apertura, mentre in Italia e in Francia avevo ricoperto ruoli completamente diversi, ossia seconda o terza linea. Mi occupo anche di supportare gli allenatori delle altre categorie per sviluppare un percorso non solo tecnico, ma soprattutto pedagogico. La Federazione del rugby in Mozambico mi ha poi proposto di diventare coordinatore dei progetti nazionali. Alleno la nazionale femminile e sono co-allenatore della maschile».
Chi sono i bambini e i ragazzi che giocano a rugby?
«Il progetto è stato abbracciato fin da subito da tantissime ragazzine, tanto che pareva quasi fosse uno sport femminile... Oggi abbiamo 150 tesserati dagli under 10 ai senior: per loro il rugby è diventato una seconda famiglia, una seconda casa. La società sportiva è inserita in un quartiere suburbano della capitale sorto vent’anni fa. Le famiglie spesso vivono alla giornata, i ragazzi crescono da soli. Ed è proprio in queste situazioni in cui il club entra davvero, abbracciando e accompagnando la crescita di questi giovani che trovano negli allenatori delle nuove figure paterne».
Al di là dei gesti tecnici, cosa insegna il rugby a questi ragazzi?
«Il rugby insegna la vita di gruppo, la puntualità negli appuntamenti, lo spirito di sacrificio, la responsabilità. Mettiamo anche un po’ di pressione dal punto di vista del rendimento scolastico. I genitori sono entusiasti di come cambino i loro figli».
Il rugby è strumento di emancipazione?
«In Mozambico sopravvive ancora in una cultura molto maschilista. Il nostro è invece un progetto partecipativo che mette tutti sullo stesso piano e dà le stesse libertà. Mesi fa abbiamo partecipato a un torneo internazionale e le famiglie si domandavano perplesse come fosse possibile che fosse una donna la prima tra loro a prendere un aereo...».
E Matteo cosa si porta nello zaino da questa esperienza?
«La gioia di vivere dei mozambicani, pur avendo poco. È questa la loro vera ricchezza. E il fare le cose a velocità d’uomo».
Il club in Mozambico vive anche grazie a tanta solidarietà dall’Italia e dal Veneto...
«Abbiamo un legame forte con l’Italia, e con Treviso in particolare, e anche con la Francia: da vari benefattori arrivano donazioni di vestiario sportivo, palloni e materiali per gli allenamenti. Se non fosse per questi gesti, qui i ragazzi giocherebbero con addosso i vestiti di sempre: i jeans, al massimo una tuta. Per la sussistenza del club viviamo di donazioni, piccole sponsorizzazioni e crowdfounding. C’erano alcune aziende locali che ci supportavano, ma ora il Mozambico sta vivendo un periodo inquieto di manifestazioni post elettorali e non sappiamo se nel 2025 i fondi arriveranno ancora. Per questo lanciamo un appello all’Italia».
Ora il sogno è di costruire una clubhouse...
«Il gruppo ha espresso la necessità di avere uno spazio di ritrovo prima e dopo gli allenamenti: non poteva essere altro che una clubhouse, che stiamo costruendo come opera comunitaria con manodopera e progetti di persone del quartiere. Usiamo le bottiglie di birra al posto dei mattoni, nell’ottica anche dell’educazione al riciclo».
Il suo futuro è in Africa?
«C’è allo studio un progetto di cui mi occuperò per un’attività di cinema itinerante nelle comunità rurali, che sia anche veicolo di prevenzione sanitaria. E poi voglio continuare questo mio capitolo di vita con i ragazzi e le ragazze del rugby. Ho ancora tanto da imparare».
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