La famiglia del professore e gli zingari fieri

Il racconto breve di Antonia Arslan: una busta nell’armadio di una stanza sempre chiusa, la scritta “Lettere rumene”
Antonia Arslan

C’è una stanzetta nella mia casa a cui cerco di non pensare. Dentro ci sta un letto, buono per qualche ospite affaticato che finisce per trovarvi asilo, un vecchio comodino e un armadione, che purtroppo ho riempito di carte di mia madre, quando è morta; e lei aveva tenuto una quantità di lettere, sue, dei suoi innumerevoli parenti, di noi figli, di mio padre e dei suoi colleghi; e in tutte, accuratamente, aveva infilato anche le minute delle risposte, che scriveva velocemente nella sua calligrafia quadrata, inconfondibile. ..

Giorni fa ho dovuto entrarci, e mi sono messa a sfogliare quelle vecchie carte, mentre ricordi ed emozioni riaffioravano vivaci, sfarfalleggiandomi intorno; e in mezzo ho trovato una busta grande, spessa, con la scritta “Lettere rumene”. L’ho aperta subito, e già rivedevo il viso austero e malinconico del famoso collega rumeno di papà, il prof. Sibianu, di sua moglie, di suo nipote (quello delle scarpe, mi è subito tornato in mente); e anche quello di mia madre, occupatissima – dopo il loro viaggio in Italia – a tenere la contabilità delle sue spedizioni a Bucarest.

All’epoca la Romania, paese potenzialmente prospero, era sotto il tallone del dittatore Ceauşescu e della sua ambiziosissima moglie Elena. Il professore era amico di mio padre dalla giovinezza, quando entrambi si erano specializzati a Berlino col mitico professor Fischer; e un paio di volte all’anno gli scriveva, ricordando il suo sogno di venire finalmente in Italia e le difficoltà enormi che incontrava per realizzarlo. Mia madre rispondeva con gentilezza, e mandava auguri.

Ma lui finalmente ce la fece. Arrivò un giorno di sorpresa, con la moglie e l’adorato nipote, stipati in una macchinetta piccola e malridotta, piena di roba fino al tetto, e con l’idea chiara in mente di visitare in quindici giorni quanto più poteva del nostro paese. Purtroppo lo avevano sì lasciato partire, ma quasi senza soldi: tutto il contante che avevano in qualche modo racimolato gli bastava appena (disse alla mamma con molto imbarazzo) per “nutrire l’automobile”. Previdenti, si erano portati via alcuni salami, diversi filoni di pane, un po’ di scatolette e parecchi vasetti dell’ottima marmellata rumena, come eventuale merce di scambio.

Mia madre si commosse e cominciò a far piani per aiutarli. Gli procurò ospitalità a Roma a casa di suo fratello lo zio Ildebrando, grassoccio e bravissimo comandante dell’Alitalia; ma loro volevano scendere oltre Napoli, sognavano Amalfi, e non è facile trovare dimora laggiù senza pagare...Il professore e i suoi riuscirono tuttavia ad arrangiarsi, dormirono in macchina o sui prati del Sud, sospinti dal loro sogno e dal desiderio di bellezza, felici: e io imparai in quei giorni il valore – e il prezzo – di quella felicità.

Negli anni seguenti con Bucarest era tutto un andare e tornare di pacchi e di lettere. Mia madre si ingegnò a sormontare tutte le ruberie della dogana rumena, e ci riuscì molto bene: spediva le scarpe italiane al nipote una alla volta, altrimenti sarebbero finite nelle mani ingorde dei doganieri; metteva in un pacco, ben confezionato, diverse tavolette di cioccolata svizzera, ma sopra ne legava strette altre due, grosse, con l’elegante scritta in tre lingue, “Per i signori doganieri”. E i pacchi venivano recapitati!

Qualche anno dopo il professore e sua moglie morirono uno dopo l’altro, e del nipote non sapemmo più niente. Ma dalla Romania approdarono a casa mia, in anni successivi, una pianista molto brava e una professoressa vagabonda, che raccontavano fatti e misfatti del loro governo, ma anche la bellezza strana del loro paese, le pianure fertilissime e le montagne oscure della Transilvania, il fascino della loro capitale, Bucarest, chiamata con orgoglio la Parigi dei Balcani. Ed entrambe parlavano con dolore del saccheggio che sul corpo della città, elegante e compatta interpretazione di un liberty orientaleggiante, stava compiendo il dittatore Ceauşescu, nella sua delirante volontà di plasmarne a sua immagine il volto, demolendo quartieri storici e chiese quattrocentesche e costruendo immensi palazzoni per sé e per la sua corte. Ogni tanto poi mi parlavano in rumeno, e mi piaceva molto ascoltare quella lingua morbida, esotica ma vicina alle nostre, della stessa famiglia...

Poi Ceauşescu cadde, rovinosamente, nel dicembre 1989, e fu giustiziato con la sua lady Macbeth: il suo popolo davvero non ne poteva più di angherie, del cibo scadente, delle continue demolizioni. Tutti erano poi spaventati dall’onnipresente polizia politica, la Securitate, e anche ridotti alla fame dalle politiche economiche del regime, indirizzate solo all’esportazione.

Poco tempo dopo, nei primi anni Novanta, io fui invitata per due volte all’università di Bucarest per tenere alcune lezioni di letteratura italiana contemporanea. Fui felice di andarci: finalmente avrei visto, coi miei occhi, e fu un’immersione totale e un’esperienza straordinaria. Feci molta amicizia con Oana Salişteanu, la collega che mi aveva invitato, e con suo marito Radu Cristea, giornalista, che era stato fra i primi a irrompere nel sontuoso palazzo nuovo del dittatore, nei giorni della rivolta popolare. Radu mi raccontò che, entrati nella grandiosa cucina, trovarono il menu del giorno affisso in una bacheca e, sotto, una meravigliosa torta appena sfornata: e così si fermarono, lui e i suoi compagni, a mangiarsela fino all’ultima briciola...

La gente girava ancora per le strade con aria sospettosa e spaurita; il latte fresco non si trovava, neanche per i neonati; negozi praticamente non ce n’erano, e i pochissimi desolatamente sforniti. Solo in un caffè poveramente arredato di una piazza centrale i giovani si affollavano, perché era arrivata la Cocacola e e si vendevano fette di pizza confezionata e qualche gelato dal sapore misterioso.

Ma studenti e colleghi erano curiosi e intelligenti, e avevano voglia di parlare, di scambiare idee, di discutere. Ti invitavano subito a casa loro e si affollavano nei minuscoli salotti, avidi di contatti e di amicizia, di riallacciarsi agli anni Trenta, al loro passato di libertà, dorato nella memoria. E ti offrivano le meravigliose marmellate e i dolci liquori fatti dalle nonne.

Ma quei viaggi mi fecero un altro dono. Dal balcone dell’appartamento dei miei ospiti, in periferia, vedevo allungarsi verso l’orizzonte una strada bianca relativamente poco frequentata: fu da lassù – osservando il portamento diritto e fiero, pieno di dignità e di antico orgoglio, di una famiglia che si allontanava sul suo grande carro – che mi parve per la prima volta di comprendere davvero la cultura del popolo degli zingari.

E così riemerse in me un ricordo che da allora mi accompagna: la mia prima visita al Santo, a cinque anni, con nonno Yerwant da una parte e il suo amico zingaro dall’altra... 

L’autrice: Antonia Arslan

Verona scrittrice Arslan alla Letteraria foto:Anto/Fotoland
Verona scrittrice Arslan alla Letteraria foto:Anto/Fotoland

Antonia Arslan, padovana di origine armena, è scrittrice e saggista di fama internazionale. Laureata in archeologia, è stata docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. Autrice di saggi sulla narrativa popolare e d’appendice e sulla galassia delle scrittrici italiane, attraverso l’opera del poeta armeno Daniel Varujan, del quale ha tradotto le raccolte II canto del pane e Mari di grano, ha dato voce alla sua identità armena. Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, “La masseria delle allodole” con il quale ha alzato il velo sul genocidio armeno. Tradotto in venti lingue, compreso il giapponese, conta a oggi 44 edizioni.

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova