«Io, ambasciatore di calcio tra i bimbi di mezzo mondo»

Francesco Toldo si racconta: con Inter Campus porta felicità e un po’ di luce nei Paesi poveri
Di Stefano Edel

INVIATO A MILANO. Ci sono immagini e frammenti di vita quotidiana che ti segnano profondamente “dentro”, e che proprio per la loro unicità e a volte drammaticità restano impressi per sempre nella mente di una persona. Come in una sequenza fotografica ravvicinata, racchiudono in sè le difficoltà e i problemi di un’esistenza ai margini, fra rischi incredibili, violenze devastanti, angosce e traumi che ti porti dietro per decine di anni. Francesco Toldo si è talmente calato nella nuova figura che ha accettato di ricoprire all’Inter da sembrare un altro. Un ragazzo d’oro, dal cuore grande, che mostra una sensibilità e una generosità fuori dal comune, al contrario del ragazzone quasi scontroso che conoscevamo quando calcava i terreni degli stadi, poco ciarliero e assai diffidente nelle interviste.

Quando ti viene incontro, uscendo dal suo ufficio, al terzo piano della splendida sede nerazzurra di corso Vittorio Emanuele II, a due passi da piazza Duomo, il “dirigente” Toldo sfodera un sorriso a 32 denti, ti accompagna, come novello Cicerone, in giro per uffici e corridoi e infine chiede di potersi raccontare in una stanza dove, appesa al muro, c’è una bellissima gigantografia di Giacinto Facchetti. È una bella storia, la sua, ricca di emozioni e sentimenti forti. Non che quella di prima fosse meno intensa, ma adesso è cambiato tutto: scenari, realtà e persone con cui rapportarsi. Tutto legato ad Inter Campus, di cui è a tutti gli effetti l’ambasciatore.

Francesco, vogliamo parlarne subito? Lei, 41 anni compiuti da poco, che cosa fa esattamente?

«Ho sposato il progetto sociale del club di Moratti, un progetto meraviglioso, prestando la mia immagine e la mia persona. Con Inter Campus andiamo in mezzo ai bambini disagiati di vari Paesi e lo scopo che ci prefiggiamo è di integrarli nella realtà in cui si muovono attraverso il calcio, con le sue regole e il suo stare insieme. È per questo che io sono qui, non ci sono altre ragioni al di fuori di questa».

Ma chi è Toldo per loro? Che cosa rappresenta?

«Quando sei nella serie A italiana, così come negli altri campionati europei che vanno per la maggiore, la tua visibilità è globale, perché tutto viene amplificato dalla tv. I piccoli ti vedono come un idolo, un esempio da seguire. Poi succede che, magari, un giocatore rifiuta un autografo ad un ragazzino e allora il mito cade. Cosa voglio dire con questo? Che dobbiamo accollarci delle responsabilità, proprio perché siamo conosciuti. Me lo dico da solo, sono stato bravo, spesso manca la disponibilità del nostro mondo verso i piccoli. Il futuro, invece, è nelle loro mani e vanno aiutati, ecco perché non possono essere lasciati in disparte».

In concreto, lei gira il mondo e come entra in contatto con le varie realtà?

«Premesso che un progetto sociale così ce l’ha solo l’Inter, e nessun altro top team europeo, progetto sostenuto interamente dalla famiglia Moratti, siamo presenti in 25 Paesi cercando di educare i bimbi, come dicevo, attraverso il calcio, là dove soprattutto non c’è una cultura di questo sport. Attenzione, non facciamo scouting, non andiamo a caccia di futuri talenti, la fascia d’età interessata è quella fra i 7 e i 12 anni. Io ho smesso di giocare nel luglio 2010, e in questi due anni di esperienza ho toccato con mano situazioni incredibili: in Romania la piaga dell’abbandono minorile, in Cambogia lo sfruttamento dei piccoli, in Venezuela la criminalità, in Israele-Palestina e in Cina le questioni politiche. Come ci proponiamo? Sondiamo il terreno, verifichiamo se c’è il desiderio di accoglierci, apriamo un campus e lì rimaniamo per sempre. È dal 1997 che tutto ciò si fa per volontà del presidente Massimo. Ogni volta che io mi sposto in uno di questi Paesi, e vi rimango 4-5 giorni, torno a casa con un enorme bagaglio di aneddoti».

Ce ne racconta qualcuno?

«Beh, ricordo quella volta che andammo sul campo di Caracas scelto per la nostra iniziativa. Udivamo spari a distanza di 50-100 metri, ed eravamo comprensibilmente turbati. “Vai avanti, non ci sono problemi se restiamo sotto i 20 colpi (di pistola, ndr)”, mi dissero i piccoli. Oppure quando in Romania ci trovammo con figli e figli lasciati soli dalle rispettive famiglie. Poterli togliere dalla strada e regalare loro le magliette dell’Inter ti riempiva il cuore di gioia. Quando giocavo, cercavo sempre di informarmi su costumi e usanze del posto, ma anche sui gravi problemi che lo affliggevano. Anche solo riuscire a regalare un sorriso ad un bambino per noi rappresenta un successo».

Troppo ghiotta l’occasione di averla a disposizione per non chiederle di parlarci un po’ del calcio di oggi. Ad esempio, c’è un nuovo Toldo all’orizzonte?

«Da un anno alleno i portieri della Nazionale Under 20. Ebbene, per me i giovani italiani sono fortissimi, ma soffrono l’invasione degli stranieri. Nomi non ne faccio, non sarebbe corretto, però vi assicuro che di bravi ce ne sono. In Under 21, Under 20 e giù giù sino all’Under 15. Sacchi e Viscidi a Coverciano stanno facendo un ottimo lavoro. Il giovane va comunque seguito sempre, perché quando meno te lo aspetti esplode. I requisiti per essere un buon portiere sono: fisico, talento e la fortuna di disporre di validi preparatori».

A proposito di allenatori, Giancarlo Caporello è stato colui che l’ha svezzata e costruita come estremo difensore. Vi sentite ancora?

«Certo. In un Padova-Cesena Primavera di pochi mesi fa all’Appiani me lo sono trovato in tribuna, fianco a fianco. È un uomo fantastico, a Montebelluna ha tirato su una marea di ragazzi. Era un pazzo scatenato quando mi allenava, ma con l’entusiamo di un ragazzino. Ricordo che a 14 anni ci sottopose al test della paura. Ci mise in porta uno alla volta e tirò fortissimo da una distanza di non più di tre metri. Chi resisteva, superava la prova. I suoi allenamenti erano epici. Era come un falegname che scolpiva un tronco. Ma ti massacrava...».

Le viene in mente, ogni tanto, il magico anno 2000? Con Buffon infortunato al polso, diventò il numero uno azzurro. E agli Europei eliminò l’Olanda in semifinale, grazie a parate eccezionali sui calci di rigore. In più quell’estate si sposò con Manuela, anche lei padovana.

«Niente viene per caso. Dal 1996 al 2000 fu un crescendo strepitoso per me, e approdai in Nazionale con merito. Ma era tutto buffo perché avevamo previsto anche il matrimonio. Otto mesi prima non si sapevano ancora quanto saremmo andati avanti e le date delle gare decisive, ero diventato importante per la Nazionale, con Gigi (Buffon, ndr) fuori. Mi sono divertito molto in quel momento».

L’allenatore di cui conserva il miglior ricordo?

«Mourinho. Con il suo staff ha ottenuto il massimo grazie a valori umani incredibili. Una persona molto colta, capace di coinvolgere tutti. Ma tutti, credetemi».

Il suo rapporto con Padova?

«Mia moglie Manuela è di Vigodarzere, io di Caselle di Selvazzano. Ci siamo costruiti la casa a Voltabrusegana, ma ce la godiamo poco o nulla. Quando ci torniamo, è solo per un saluto ai nonni, sia materni che paterni. Ormai i nostri figli sono radicati qui a Milano».

Nessuno dei due che pensi al calcio?

«Direi proprio di no. Alessandro, 11 anni, e Andrea, 7, hanno in testa solo il basket. Lo praticano entrambi e noi andiamo a vederli».

Domani è Natale. Pensierino da mettere sotto l’albero?

«Ultimamente c’è la necessità di ritrovarsi un po’ di più in famiglia, per riscoprire quei valori che rischiamo di perdere. Ecco, mi piacerebbe che si pensasse di più alla vita famigliare e a coltivare l’amicizia e il calore umano sotto lo stesso tetto».

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