«La scherma è e rimane parte della mia vita»

Francesca Bortolozzi: «Oggi insegno l’arte di tirare alla Comini e faccio il tifo per Claudia»
Di Stefano Edel

PADOVA. Il sorriso non è cambiato, anche se non gioisce più per i trionfi in gara e le medaglie che si metteva al collo. Bella lo è sempre stata, un tratto comune delle nostre atlete che in pedana si sono calate, e si calano tuttora, la maschera sul volto tirando di fioretto, sciabola o spada. Di diverso, rispetto al passato, c’è lo status odierno: moglie e mamma felice, ma soprattutto insegnante. Di scherma, la disciplina sportiva che ha abbracciato quando aveva poco più di 6 anni e che, oggi che all’anagrafe ne dichiara 44 (portati, peraltro, benissimo), continua ad avere un peso significativo nella sua vita. Francesca Bortolozzi, coniugata Borella, madre di Claudia, 15 anni, e Laura, 11, si sente pienamente realizzata anche nel “dopo”. Campionessa olimpica nel fioretto a squadre ai Giochi di Barcellona ’92 e di Atalanta ’96, tre volte iridata (due a squadre, una nell’individuale), oro ai Giochi del Mediterraneo ’91, sempre nell’individuale, la padovana continua a giocare in... casa, come ci racconta lei stessa in questa chiacchierata, spaziando su passato, presente e futuro.

Francesca, se le chiediamo di fermarsi un attimo e di voltarsi indietro, quali pensieri le vengono subito alla mente?

«Penso alla mia doppia esistenza, prima di atleta, poi di moglie e mamma».

Entriamo nello specifico.

«Da 6 anni a 29, quando ho dato alla luce la primogenita, c’era la scherma al primo posto. Diciamo a 360 gradi, con le giornate scandite dagli allenamenti e i fine settimana dalle competizioni. Sono cresciuta sotto la guida del maestro Guido Comini, di cui sono stata la sua ultima campionessa italiana nel 1978, poi, dopo la sua morte, ho avuto Luciano Dal Zotto e infine, a Mestre, Livio Di Rosa».

Già, la scuola mestrina...

«Avevo 23 anni quando mi trasferii in quel circolo. Eravamo cinque nazionali ad allenarci con Di Rosa: oltre alla sottoscritta e a Dorina Vaccaroni, c’erano Andrea Borella, Andrea Cipressa e Mauro Numa. Mica male, eh?».

Andiamo avanti. La seconda dimensione.

«Ho avuto la fortuna di incontrare una persona come Andrea (Borella, ndr), con cui sono stata, e sono tuttora, in sintonia totale, e con cui ho condiviso, e condivido anche oggi, gli stessi valori. Ma anche i limiti di una coppia così presa dallo sport. Ci siamo sposati nel 1995, fate un po’ voi i conti... Dopo Atlanta, concepimmo Claudia, nata nell’ottobre 1997. E da lì maturò piano piano la svolta. Ero mamma, e ricominciai a fare scherma, sentivo che avevo voglia di dare ancora qualcosa, mi dispiaceva interrompere così giovane il mio rapporto con lo sport agonistico. Il trionfo del 1996 mi aveva entusiasmato, ma anche fatto soffrire molto, perché mi era stata negata la possibilità di partecipare alla prova individuale».

Come conciliare le esigenze di atleta con quelle di genitore?

«Appunto, ecco il problema. Andai avanti altri tre anni con la scherma, ma non era più come prima: non più a 360 gradi intendo, ma a 180. Ero tornata in forma, e invece il richiamo della piccola era così forte da spingermi a tornare immediatamente da lei, una volta terminate le gare. Così lasciai definitivamente nel marzo 2001, dopo due finali di Coppa del Mondo e dopo che l’anno prima avevo vinto, sempre in Coppa, a Tunisi. Fu il mio ultimo successo. Non mi portò bene, quel podio. Fu una scelta necessaria, però, il ritiro, la famiglia era diventata il primo pensiero e, quando si allargò con l’arrivo di Laura, mi convinsi, anzi ci convincemmo, che le figlie erano troppo importanti per sballottarle di qua e di là, bisognava seguirle quotidianamente, e la decisione fu conseguente. Scelta fatta insieme ad Andrea, anche se il ritiro è stato più dolce per me che per altri».

Ci spiega la ragione?

«Beh, l’idea di insegnare scherma, dunque di non uscire completamente dal mio mondo, è risultata fondamentale per compensare l’abbandono dalle competizioni e continuare a sentirmi parte di quell’ambiente in cui ero cresciuta e mi ero realizzata come atleta. E poi stare con i giovani e vivere i loro problemi mi solleticava non poco».

Le nuove leve del fioretto, appunto. Chi sono e che rapporto ha instaurato con loro?

«Questo è il settimo anno che insegno, ho iniziato nel 2006 alla Comini: mi chiamò il presidente Antonio Dedanieli, dandomi subito piena fiducia e autonomia nella gestione tecnica. Nel 2010 Andrea ha lasciato la palestra di Mestre, che aveva portato ai vertici nazionali come risultati ma dove purtroppo ha dovuto fare i conti con le invidie di tanti, e mi ha raggiunto qui. Lavoriamo insieme, lui collabora anche con l’Arte Scherma Montebelluna e con la Federazione olandese. Che rapporto ho con i miei allievi e allieve? Va spiegato bene: quando ero ragazza, facevo scherma e studiavo, non pensavo ad altro. Oggi, invece, loro hanno tante opportunità in più, ma è anche vero che gli si chiedono maggiori sacrifici sul piano dello studio e dell’impegno sportivo, per cui vorrebbero subito il risultato, sono molto impazienti. Sono diventata un po’ la loro confidente: si aprono, mi raccontano i problemi che li angustiano, chiedono consigli. Trovo che alcuni ragazzi, proprio perché vivono in famiglie troppo “protettive”, siano fragili e non affrontino le responsabilità come dovrebbero. Per questo vanno resi più indipendenti e la scherma è un ottimo mezzo per stare insieme, socializzare e fare amicizia».

È anche l’insegnante di sua figlia Claudia. Non ci dica che non soffre e non fa il tifo quando la vede in gara...

«Precisiamo: ho un’ottantina di allievi/e da seguire, di età compresa fra i 7 e i 24 anni. C’è stima reciproca, però tutti/e hanno profondo rispetto per la sottoscritta. Mi ascoltano molto, e sono contenta di questo. Anche Claudia, che quest’anno ha vinto la seconda prova nazionale cadetti ad Ariccia, e adesso è stata convocata in Nazionale per la Coppa del Mondo a Zagabria e per i Giochi del Mediterraneo, a fine mese. Non è facile per lei, è vero, ha gli occhi di tutti puntati addosso, per ovvii motivi, ma in famiglia cerchiamo di farle vivere questi appuntamenti in maniera serena. Io poi sono delegata in pedana e, credetemi, soffro di più come mamma, con lei devo stare attenta. Andrea? Manda avanti me...».

Rapidi flash. L’immagine più bella della sua carriera?

«Atlanta, l’oro a squadre. È stata la giusta compensazione per quanto avevo patito, e poi il Ct mi ha messo nell’ultimo assalto, contro la romena Badea. Quello dei punti decisivi».

Il maggiore rimpianto?

«Non aver mai conquistato una medaglia d’oro a livello individuale ai Giochi olimpici».

Siamo i leader mondiali di questo sport. I successi non si contano più, ormai. Ma il futuro?

«Ci sono ragazze di valore, che stanno crescendo nel fioretto. Quelle che hanno trionfato a Londra avevano dei miti davanti, veri e propri esempi illuminanti. Ora bisogna vedere se la struttura continuerà a funzionare così bene. Un problema di tecnici si pone: la crisi economica ha inciso, oggi le nostre società vivono delle quote degli associati e basta, e per questo molti maestri vanno all’estero. Cerioni? È un professionista, la sua è stata una scelta dettata da motivi economici, e non ne farei un caso».

In conclusione, perché consiglia di praticare la scherma?

«Perché è una disciplina che ti dà la possibilità di formarti completamente come persona, perché devi sbrigartela da solo/a, perché c’è un rispetto basilare delle regole, così come dell’arbitro, del tuo maestro e soprattutto del tuo avversario/a».

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