Marco Meoni si è trasferito a Houston per far nascere i nuovi campioni del Texas

PADOVA

Houston, abbiamo un campione. Marco Meoni, 47 anni, di punto in bianco dallo scorso agosto si è trasferito palloni e bagagli in Texas, dove fa l’allenatore. Quello che probabilmente è il più forte pallavolista padovano di sempre ha cambiato radicalmente vita, portando con sé la famiglia. «Abitiamo molto vicino alla sede della Nasa. Quando si è presentata questa opportunità l’abbiamo colta al volo», racconta “Meo”, raggiunto telefonicamente alle cinque del pomeriggio, le 10 del mattino nella sua parte di mondo.

Ci racconta come è nata? «Un po’ per caso. Ho parecchi amici negli Stati Uniti, conosciuti attraverso la pallavolo, e da tempo mi proponevano di fare un giro a trovarli. Così l’anno scorso sono andato a Houston anche col pretesto di assistere a un torneo e, nell’occasione, quello che poi è diventato il mio responsabile mi ha offerto subito un lavoro. Io lì per lì pensavo scherzasse e invece ha insistito perché accettassi. Dallo scorso agosto seguo un club giovanile femminile, allenando un under 18 e un under 16, in più faccio da sport director del centro. Tenete presente che in America l’impostazione è molto diversa dalla nostra: i ragazzi dopo i 18 anni passano al college. O diventi giocatore universitario o smetti».

Con lei c’è la sua numerosa famiglia. La moglie Elisa e i tre figli: Filippo, 18 anni, Alessandra che ne ha 16, e Leonardo, di 11.

«Personalmente ho sempre pensato che, una volta smesso di giocare, mi sarebbe piaciuto insegnare il volley ai giovani, ma in Italia non puoi farlo come primo lavoro, qui sì. E poi ci piaceva far vivere ai ragazzi un’esperienza di questo tipo, che pure è stata molto complicata da organizzare. I miei figli sono andati a scuola qui, il più grande si è diplomato da poco. Per loro è molto utile dal punto di vista linguistico, ma non solo: abbiamo scoperto una realtà diversissima anche su un piano socioculturale, perché è un mondo lontanissimo da quello che ci attendevamo».

In Europa l’idea di America che abbiamo è legata alle serie tv e ai film, come se Manhattan rappresentasse gli Stati Uniti per intero. E invece non è proprio così…

«Esattamente. Per dirvi: Houston con la sua area metropolitana conta circa 7 milioni di abitanti, i grattacieli sono tutti nella downtown ma poi ci sono case basse e spazi ampissimi. Io mi aspettavo il deserto dei film western, invece è ricchissima di parchi. L’altro giorno all’uscita dalla palestra c’erano i camosci che mi saltellavano davanti».

Siete in Texas, gente col cappello da cowboy se ne vede?

«Ce n’è, ma anche questo è un luogo comune. Li indossano i più anziani o i proprietari di ranch, ma non è un vezzo, piuttosto una necessità, perché qui già da tre mesi a questa parte fa caldissimo, e il sole ti spacca la testa. Diciamo che è una sorta di costume tradizionale, che non a caso viene rispolverato per determinati eventi. Allora vedi gente con gli stivali e il cappello, soprattutto in provincia».

Avete già deciso quanto resterete?

«Il contratto è triennale, ma dipende anche da come si evolverà il virus e da ciò che comporterà. Per dire, mia moglie doveva rientrare in Italia a giugno ma hanno sospeso i voli e non sappiamo se a luglio potremo viaggiare. Qui non c’è mai stata una fase 1, ma subito una fase 2, con attività e ristoranti sempre aperti per il take away. L’unico divieto è legato agli assembramenti: sono stati cancellati gli eventi pubblici di ogni tipo, compresi i tornei, ma non c’è mai stato l’obbligo di indossare mascherine o guanti. In questi giorni proprio il nostro territorio assieme a quello della California registra più contagi di tutti, per cui potrebbero esserci nuove restrizioni, anche se in realtà i numeri restano relativamente bassi, perché su 30 milioni di abitanti in Texas, e con un milione e 300 mila test effettuati, sono stati riscontrati meno di 30 mila positivi».

Tra le sue particolarità c’è che gestiva un wine bar e una gelateria a Porto Recanati. Ha dovuto lasciarli? «Quando giocavo a Macerata ho fatto quell’investimento per pensare a un futuro post-pallavolistico. Io, però, quando faccio qualcosa mi ci getto con impegno e ho cominciato a interessarmi all’amministrazione, rapportandomi con i fornitori. Per capire meglio quello che facevo ho iniziato a frequentare qualche corso da gelataio e via via ne sono seguiti altri ed è diventata una passione sempre più forte. Ora i locali sono gestiti dai miei soci, io collaboro solo marginalmente».

Dagli Usa ha seguito il volley mercato?

«Sì e per quanto riguarda lo scudetto resta favorita la Lube, che è riuscita a confermare il gruppo, sostituendo un grandissimo campione come Bruno con un altro dello stesso livello come De Cecco: cambierà lo stile di gioco ma non credo che le sue bocche di fuoco avranno problemi ad adattarsi. Per quanto riguarda Padova, l’incognita più grossa è data dall’addio a Baldovin perché, in tanti anni, assieme alla società aveva costruito un meccanismo che funzionava. Ora va oliato nuovamente, ma credo che i tifosi debbano fidarsi del diesse Santuz, che ha sempre saputo lavorare bene anche con budget ridotti e che sicuramente sarà molto vicino al nuovo allenatore, Cuttini». —

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