Skender l’albanese dei sogni
di Matteo Lunardi
ALBIGNASEGO
Quando il calcio è ancora un sogno.
In Seconda Categoria a trascinare l’Universitaria Albignasego neocapolista del girone «L» ci sta pensando l’esterno Skender Sheshi, albanese di Durazzo, che a suon di gol (ben 8, capocannoniere della squadra) e grandi giocate ha guidato i compagni al primo posto a braccetto con Mellaredo e Montà. Una stagione irresistibile quella del centrocampista, classe 1983, che alle spalle ha una storia tutta da raccontare.
«Sin da piccolo il mio sogno era diventare un calciatore – racconta Skender, che vive ad Albignasego e lavora come autista alla «Gastronomica» di Montà – Sono cresciuto nel Partizan di Tirana, giocando diverse partite di coppa e debuttando in serie B a 15 anni. Mio zio aveva una nave tutta sua e mi portò in Italia per aiutarmi a sfondare».
A soli 16 anni il giovane Skender si affaccia in serie D con il Brindisi. «A quell’età trovarsi solo e in un paese tutto nuovo non è facile. Mi fermai due stagioni, poi decisi di trasferirmi a Padova e piano piano iniziai a costruirmi una nuova vita, trovandomi un lavoro e una casa».
Comincia così un lungo viaggio nei dilettanti: La Rocca, Monselice, San Pietro Viminario, Maserà e Rubano prima degli ultimi due campionati vinti con Rio e CasalserugoBovolenta. In estate l’approdo ad Albignasego, per riportare in alto un paese relegato in Seconda dopo aver toccato con mano i fasti della serie D (persa nella fusione col San Paolo).
«Ho trovato un club come pochi per serietà ed entusiasmo. Fabio Cecchinato è il presidente che tutti vorrebbero, ha fatto ripartire la società dalla Seconda con mille sacrifici. C’è una buona squadra e daremo l’anima per centrare la promozione. Dopo aver perso la serie D la gente si aspetta molto da noi. Abbiamo uno stadio fantastico e strutture che meritano altre categorie».
Skender in Italia sta benissimo e ha pure imparato il dialetto. «Ho portato qui mio papà nel 2007, mi sono sposato e ho un bimbo di tre anni. La mia famiglia è tutta qui ed è un orgoglio perché sono partito da zero». Con un tesoro nel cuore. «Prima di ogni gara guardo il cielo e saluto il nonno. L’ho perso sei anni fa ma non lo scorderò mai. E’ stato lui a portarmi per la prima volta in uno stadio e a farmi diventare un uomo».
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