Cinema al 100 per cento, le recensioni dei film usciti giovedì 24 marzo 2022

Una storia ambientata a Parigi, l’omaggio ad Altrimenti ci arrabbiamo, Diana Spencer e la decisione di lasciare Carlo

Marco Contino, Michele Gottardi

PARIGI, 13 ARR.

Regia: Jacques Audiard

Cast: Lucie Zhang, Makita Samba, Noémi Merlant, Jehnny Beth

Durata: 105’

Nel tredicesimo arrondissement di Parigi, Camille, professore di lettere, incontra Émilie: ne diventa l’amante e l’inquilino ma lei si innamora e lui no. Trasferitosi in un altro appartamento, la vita di Camille si incrocia con quella di Nora, traumatizzata da un equivoco a sfondo sessuale che si rivela, alla fine, salvifico come se la cam girl Amber Sweet, per la quale è stata scambiata, la riconnettesse con la realtà e la sua stessa sessualità. Intanto Camille ripensa al proprio rapporto con Émilie. In “Parigi, 13 Arr.” Jacques Audiard abbandona le asprezze del proprio cinema per raccontare, con una morbidezza inusuale (anche se non priva di qualche scatto di irruenza), l’amore di oggi che assomiglia al quartiere olimpico parigino dove è ambientato il film. Fluido, multietnico (Émilie è una ragazza di origini cinesi e il 13° distretto è noto per ospitare la più grande comunità asiatica di Parigi), luogo di scambio continuo (come i treni de la Gare de Paris Austerlitz, la stazione che si trova nel quartiere). I protagonisti, in fondo, sono così: partono, arrivano, ritornano, imboccano binari che portano lontano per poi incrociarsi di nuovo. La loro Olimpiade d’amore contempla sconfitte, delusioni, atroci scherzi del destino (come quello riservato a Nora), consapevolezze e, alla fine, vittorie. Che hanno il tono di una voce squillante dentro a un citofono o l’emozione di un mancamento improvviso. Audiard, che trova un emolliente nella scrittura anche grazie alle sue due co-scenneggiatrici Céline Sciamma e Léa Mysius, avvolge questa riflessione amorosa in un bianco e nero pieno che aspetta di essere colorato dai suoi protagonisti, aggiornandola alle tecnologie moderne (nel film c’è un continuo gioco di rifrangenze tra schermi di computer e smart phone come messaggeri d’amore ma, soprattutto, detonatori di umiliazione). Anche se, alla fine, i sentimenti sono più solidi di quello che sembra. Come le torri quadrangolari di quel tredicesimo arrondissement. (m.c.)

Voto: 7

*****

ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO

Regia: YouNuts

Cast: Edoardo Pesce, Alessandro Roia, Alessandra Mastronardi, Christian De Sica

Durata: 90’

Omaggio e non remake. “Altrimenti ci arrabbiamo” - diretto dai videomaker Antonio Usbergo & Niccolò Celaia (sotto lo pseudonimo di YouNuts) - mette le cose in chiaro sin dai titoli di testa quando riassume in pochi frame la vicenda del film capostipite del 1974 con la coppia Bud Spencer-Terence Hill (ancora oggi uno dei più grandi successi di tutti i tempi al box office italiano) per far ripartire la storia dai loro epigoni. Che sono Carezza (Edoardo Pesce), burbero dal cuore d’oro, e Sorriso (Alessandro Roia), ruffiano e opportunista. L’oggetto della loro rivalità (accesa ma fraterna) è sempre la Dune Buggy rossa con la cappottina gialla che si contendono a colpi di birra e salsicce fino a quando una banda di motociclisti al soldo di un immobiliarista senza scrupoli (Christian De Sica) non si mette in mezzo, trascinandoli in una faida con la comunità circense di Miriam (Alessandra Mastronardi). Inutile fare paragoni con il film e la coppia degli anni ’70: altri tempi, altro umorismo (quando gli sganassoni sonori facevano parte di un divertimento naïf eppure genuino), altro contesto. Oggi l’operazione nostalgia, anche se nella sincera forma del tributo, ha il respiro corto. Difficile pensare che le nuove generazioni si divertano a vedere sullo schermo una furiosa scazzottata con l’iconico pungo a martello di Bud Spencer/Carezza o si innamorino delle canagliesche espressioni di Terence Hill/Sorriso. E, del resto, è altrettanto difficile che gli spettatori di allora si appassionino ad un reboot che ricorda loro un tempo in cui bastava una manata per scacciare via i brutti pensieri. (m.c.)

Voto: 5

*****

AMBULANCE

Regia: Michael Bay

Cast: Jake Gyllenhall; Yahya Abdul-Mateen II; Eiza González

Durata: 136’

Danny (Jake Gyllenhall) è il figlio di un rapinatore di banche e dal padre ha ereditato il gene criminale. Ha un fratello adottivo, Will (Yahya Abdul-Mateen II) che, invece, si è arruolato nei marines ma ora, scaricato della quella stessa società per cui ha combattuto, naviga in cattive acque, senza un soldo, con un figlio piccolo e una moglie che ha urgente bisogno di essere operata. Per questo accetta di prendere parte a un colpo da 32 milioni di dollari organizzato da Danny, ma il piano naufraga e i due fratelli si ritrovano in fuga dentro un’ambulanza con due ostaggi: la giovane Cam (Eiza González), paramedico che salva le vite senza farsi mai coinvolgere emotivamente, e un poliziotto gravemente ferito proprio da Will. Sulle strade di Los Angeles, tra immacolati quartieri finanziari e slums sudici, comincia un folle inseguimento con la polizia. In “Ambulance” la macchina da presa di Michael Bay scende in picchiata dai grattacieli della città, sfreccia sull’asfalto del centro e sui canali di scolo sotto i ponti, filma milze gonfie di sangue e vene clampate con fermagli di fortuna nella missione disperata di salvare un “poliziotto Ryan”, garanzia di sopravvivenza dei due fratelli. Bay mette a ferro e fuoco la città con un film che pompa adrenalina dall’inizio alla fine, un “Mad Max” sull’asfalto di LA dove il dramma trova improbabili vie di fughe in frammenti di dialoghi surreali, in un enorme molosso del capo della polizia, in una melodia canticchiata all’apice dell’inseguimento. Tra codici d’onore e tare di famiglia, una fratellanza adottiva mai così autenticamente “di sangue” e un “coming of age” che, al termine del viaggio, porta la professione alla compassione. (m.c.)

Voto: 7

*****

UNA STORIA DI AMORE E DESIDERIO

Di Leyla Bouzid

Con Sami Outalbali, Zbeida Belhajamor

Durata: 102’

Il film, diretto da Leyla Bouzid, membro attivo dell'associazione dei giovani registi tunisini, racconta la storia di Ahmed (Sami Outalbali), un ragazzo francese di origini algerine, cresciuto nella banlieue di Parigi, senza mai aver frequentato il centro della Ville Lumière. Diciottenne timido e introverso, figlio di un giornalista algerino emigrato, e ora disoccupato, Ahmed vive una vita marginale, ma è un grande amante della letteratura e decide di seguire questa sua passione, iscrivendosi alla Sorbona per studiare lettere.

In realtà, Ahmed non crede di essere legittimato a frequentare un'università così prestigiosa e le domande sul perché sia lì si fanno più intense dopo l'incontro con Farah (Zbeida Belhajamor), una ragazza tunisina molto solare da poco arrivata in Francia, di estrazione borghese, venuta a Parigi per studiare e divertirsi. I due, accomunati dalla stessa passione letteraria, scopriranno diversi scritti arabi di letteratura erotica, di cui ignoravano l'esistenza fino a quel momento. Libri galeotti: in breve tempo Ahmed si ritroverà innamorato della sua amica e avvertirà un forte desiderio verso di lei, al quale cerca di resistere il più possibile. Perché il problema di Ahmed è la propria inadeguatezza, sia intellettuale che fisica. Pur vivendo il desiderio in modo fortissimo, con fantasie e “attenzioni” con cui cerca di sublimare la pulsione verso Farah, Ahmed non vuole ammetterlo, vivendolo quasi come una dipendenza da evitare. Nulla di religioso o moralista, semmai una condizione sociale di inferiorità che verrà risolta con una progressiva presa di coscienza – di sé e della propria sessualità – operata grazie anche al diverso rapporto col proprio corpo delle giovani donne che ruotano attorno al ragazzo. Leyla Bouzid dirige il film con occhi femminili, mostrando bene l’avvicinamento alla padronanza del corpo da parte di Ahmed, rovesciando la tradizionale e consueta ritrosia femminile in uno sguardo socialmente emancipato e disinibito, carico di erotismo e di gioia. E che questo sguardo venga da Tunisi è già di per sé una nota sociale, prima che estetica (mi.go.).

Voto: 7

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SPENCER

Di Pablo Larraín

Con Kristen Stewart, Timothy Spall

Durata: 111’

Dopo Jacqueline, Diana. Continua il percorso del regista cileno Pablo Larraín nel delineare le icone femminili del Novecento. Donne che hanno fatto della sofferenza e della reazione a essa il senso della propria vita, che venivano da un modo dorato e candido e che proprio per questo si sono trovate a gestire una resilienza molto più difficile, drammaticamente difficile. Questa volta Larraín racconta i tre giorni che hanno sconvolto gli Windsor, quando Diana decide di lasciare Carlo, dopo gli ennesimi tradimenti, misconoscimenti, delusioni. Il regista immagina cosa potrebbe essere successo a Lady D nei tre giorni delle festività natalizie del 1991. Giorni fatidici per la scelta di non salvare le apparenze, e il suo matrimonio infelice. Nessuna fuga verso un altro orizzonte sentimentale, solo il bisogno di non sentirsi oppressa, relegata, meglio: negata. Tutto attorno la Corte con i suoi riti, i sussurri e le grida, occhi e orecchie ovunque, che rendono insopportabile anche le festività natalizie. Sappiamo poi che non era Diana l’unica fuori posto, la pazza che non si piegava alle etichette di Corte, come le vicende successive degli Windsor hanno confermato. E tuttavia nello sguardo affettuoso di Larraín, nelle sue perfette inquadrature, senza sbavature, ricche di riferimenti e di rimandi (l’identificazione con Anna Bolena, le fughe notturne in cucina o coi figli, come una collegiale), in un prodotto ancora più perfetto rispetto a “Jackie”, affiora un’idea sin troppo algida di Lady D. Sembra come che il gelo che la circondava a palazzo e nella vita privata, inversamente proporzionale al calore della gente e dei media, abbia contaminato le intenzioni del regista. Ne risulta un personaggio troppo ripiegato su se stesso, sulla sua vita, sui suoi vestiti e la sua bulimia: e Kristen Stewart, pur brava, non riesce mai a coinvolgere lo spettatore in un’empatia necessaria, anche a causa di una sceneggiatura che non ridà a Diana la sua giusta dimensione, al di là degli ovvi scompensi caratteriali, suoi e del resto della famiglia, che resta giustamente sullo sfondo, fantasmi reali. Ben diverso è, ad esempio, il ritratto di “The Crown”, in cui Peter Morgan affida a Diana un ruolo forse più convenzionale, ma certamente più umano (mi.go.).

Voto: 6

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